lunedì 14 novembre 2016

NOTE SU "VIAGGIO A TOKIO"

Tra le opere di Yashuijiro Ozu “Viaggio a Tokio” è ritenuta anche dalla critica occidentale non solo una delle migliori ma anche una pietra miliare della storia del cinema mondiale. Date queste premesse credo sia opportuno spogliarsi per quanto possibile di pregiudizi e aspettative per lasciarsi condurre nella visione del film dal ritmo lento della narrazione e dalla bellezza delle immagini che il recente restauro ci ha restituito. Si rischierebbe di rimanere delusi rimanendo attaccati a dei criteri troppo occidentali che privilegiano la storia o dei messaggi che essa deve veicolare.Se proprio dobbiamo cercare un messaggio all'interno della narrazione potrebbe essere sintetizzato nel proverbio che ricorre almeno due volte nell’ultima parte e impensierisce il terzo figlio Keizo "A che serve fare il letto al morto?" e che in altre parole può essere espressa "meglio servire i genitori finchè sono vivi" ma evidentemente sarebbe troppo riduttivo ricondurre il film di Ozu a questo unico tema. In effetti “Tokio monogatari” che andrebbe tradotto “Una storia di Tokio” è un'opera ricca di allusioni e premonizioni, di rimandi e significati che si rivelano a poco a poco, in cui le sequenze si richiamano l'una con l'altra e il tutto forma una trama intessuta finemente i cui fili dopo aver compiuto il loro percorso si ricompongono in un quadro unitario. Non essendoci quadro senza una cornice che lo circonda e lo abbellisce possiamo apprezzare il rigore formale del regista nel fare di ogni sequenza una composizione di immagini quasi completa in sè stessa che pur ponendosi in una continuità l'una rispetto all'altra producono nello spettatore anche l'impressione di "stacco", di una certa discontinuità che però viene subito smussata dalla gentilezza del suo peculiare tratto narrativo.
L'attenzione al contesto e all'ambiente in cui si muovono e interagiscono i protagonisti ci situa in loro compagnia dandoci la possibilità di assaporare il clima e l'atmosfera che circonda le loro vicende che si snodano attraverso lo scorrere lento del quotidiano.
Le piccole storie di ogni giorno con i loro dialoghi semplici e pieni di sottintesi, dove il non detto supera di gran lunga ciò che viene espresso, acquistano un significato corale. Non è il singolo infatti ma la famiglia a essere protagonista e la coscienza sofferente ma serena di Shukichi e Tomi che ci appare come la superfice di un lago di montagna che presenta solo quelle pressochè impercettibili increspature celando ciò che agita le sue profondità, non fa altro che da suo catalizzatore e rappresentante.
Le speranze, le trepidazioni, le ansie, le delusioni e i dispiaceri della coppia di anziani fungono da cassa di risonanza di una grave crisi che attraversa l'istituto familiare fino a dissolverlo quasi totalmente. Ozu stesso in un’intervista a proposito di questo film ha parlato effettivamente di “disgregazione” della famiglia giapponese. Ma si sbaglia chi volesse vederci un atteggiamento improntato al pessimismo e al nichilismo catastrofista riguardo i legami famigliari. Non lo troverà, lo sguardo di Ozu è comunque positivo e accompagna il  travaglio di queste persone attraverso un equilibrio che riesce a tenere insieme il distacco dai suoi oggetti e un pathos discreto e sommesso.
Mentre vede tramontare un mondo non sa ancora con che cosa esso verrà sostituito e attraverso la posizione estetica tipica di una certa tradizione nipponica conosciuta come “mono no aware” sceglie di contemplarne la bellezza nel momento in cui ne vede la fugacità. La precarietà di ciò che è destinato a soccombere come tutte le cose ad un ineluttabile cambiamento (“mu-jo”, l'impermanenza) rende tutto ciò ancora più saturo di quel fascino fragile e struggente la cui contemplazione provoca quel sentimento particolare di commozione e nostalgica tristezza.
Ma ciò in Ozu trascende la situazione particolare per collocarsi in una dimensione più ampia ed esplorare dimensioni che vanno al cuore dell'umano. Così la famiglia di Shukichi e Tomi diventa paradigma del vivere e del trascorrere dell'esistenza dentr
o un orizzonte e un afflato che sconfina nell'universale.




L’itinerario attraverso le opere di Yashuijiro Ozu questa volta riguarda Viaggio a Tokio ritenuto unanimemente uno dei suoi capolavori e quasi sempre presente nella classifica stilata periodicamente dai critici sui migliori film della storia del cinema. Solo per questo meriterebbe la nostra attenzione ma l’intenzione, come ormai di consueto, è farne una lettura critica e stimolante così da approfondire la visione del regista giapponese e lasciarci guidare a quegli accostamenti, riflessioni e scoperte che è proprio dell’arte saper suscitare.
La trama di Viaggio a Tokio è molto semplice e si adatta perfettamente ad un cinema che privilegia le atmosfere interpersonali, l’attenzione per la natura e i contesti e la compostezza delle immagini. Il filo conduttore si dipana a partire dalla decisione di una coppia di anziani di andare a far visita probabilmente per l’ultima volta ai figli e alle loro famiglie ormai sistemati nella capitale. Il viaggio non sarà senza conseguenze rispetto alle loro attese, agli affetti e all’unità familiare. Tokio è una città in preda a una febbrile attività di ricostruzione post-bellica dove i ritmi di lavoro sono intensi e frenetici, i rapporti umani frettolosi, spesso competivi. E’ inevitabile che questa realtà abbia contaminato anche il modo di vivere dei cari figli della coppia Hirayama ma qualche sorpresa li attende.


Due incontri per condividere spunti, riflessioni e impressioni a partire da un’opera del regista giapponese
Con Davide Bersan